Non è la prima volta che parlo della Cina in relazione alla tutela dell’ambiente e non sarà sicuramente l’ultima, perché da quando la tigre asiatica ha fatto il suo ingresso nel mercato globale e aperto le sue porte al capitalismo ha imparato in breve, brevissimo tempo a sfruttarne ogni meccanismo a proprio vantaggio.
Ormai è cosa nota a tutti che la produzione industriale cinese ha conquistato ampie fasce di mercato e le istituzioni hanno fatto di tutto per sostenerne la crescita, che ormai da tempo è fissa intorno al 6-8% annuo (30-40 volte il tasso di crescita dello stivale per dire) questo da un lato ha richiesto una totale deregolamentazione dei livelli di inquinamento, e una produzione di energia che non badasse troppo a questioni ‘di secondaria importanza’ come le esternalità negative stanti -in senso lato- nell’impatto ambientale: le emissioni delle centrali a carbone, la creazione di bacini artificiali, la drastica riduzione delle aree verdi e via discorrendo.
Ma un giorno qualcuno si è svegliato, nel suo bell’attico in cima ad una torre di vetro e acciaio, e si è accorto che tutto quello che il giorno prima aveva ammirato con stupore era sparito. Già perché i livelli di inquinamento atmosferico raggiunti in Cina sono tali da conferire all’aria un odore acre così pungente da renderla difficile da respirare, e da impedire di vedere più in là del proprio naso. Pensate che a Pechino nel 2014 sono stati installati dei monitor che mostrano il cielo oltre la coltre di smog e che ricordano a tutti quanti come l’inquinamento atmosferico debba essere una preoccupazione comune… Peccato che non siano i cittadini cinesi i responsabili diretti di quella che gli scienziati hanno ribattezzato ‘airpocalipse’, mettendo in correlazione il dramma dell’inquinamento atmosferico cinese e un incremento della velocità con cui le calotte polari si stanno sciogliendo.
Fortunatamente già due anni fa il premier Li Keqiang ha affermato che la Cina avrebbe preso contromisure adeguate per porre freno al fenomeno dell’inquinamento atmosferico e invertire la rotta, così facendo la Cina -almeno a parole- ha dimostrato di assumersi la sua parte di responsabilità nei riguardi della comunità internazionale. E pur senza fissare un obiettivo preciso, le contromisure sono state prese davvero e per citarne giusto una, è stato predisposto un piano per abbandonare il carbone in favore di fonti di energia a minor impatto ambientale, non a caso per quanto riguarda l’energia eolica la potenza installata nel 2018 ammontava a 184 GW, con l’obiettivo di raggiungere il 15% del fabbisogno del paese coperto con l’energia del vento. 250 GW entro il 2020 e 400 GW entro il 2050. Non solo, anche sul solare vanno forte, non a caso hanno realizzato anche una solar farm a forma di panda. Poi però continuano a mangiare spaghetti e riso con le bacchette…
Non so dire se la presa di coscienza della Cina sia legata a fattori di mera sostenibilità economica più che ambientale ma nel quadro complessivo direi che è irrilevante, purché si ottengano risultati concreti, specie in un paese dove il fattore inquinamento atmosferico ha creato una categoria di soggetti chiamata appunto ‘smog refugees’, persone costrette a scappare dalle zone dove una boccata d’aria potrebbe ucciderti.
Ma se la Cina ha deciso di appendere il carbone al chiodo e mettersi la pettorina dell’ambientalista, lavorando davvero per migliorare la qualità della vita con tutti i ritorni economici del caso (non ultimo un alleggerimento del conto della sanità pubblica), come può rappresentare un problema a livello globale?
Lasciamo la Cina e torniamo in Italia, nella mia cucina per la precisione.
Dovete sapere che io ho un coinquilino che ha accettato di buon grado di fare la raccolta differenziata e ci mette il giusto impegno (minacce di morte? Teste di cavallo nel letto? Non lo saprete mai) ma lui come molti altri nostri concittadini non è proprio preciso nel distinguere un rifiuto dall’altro e a volte un pezzo di plastica finisce nella carta. Può succedere.
Cosa determina questo? La contaminazione del raccolto.
Quando la nostra carta -inquinata dal pezzetto di plastica sfuggito- arriva presso l’impianto di trattamento, viene fatta una stima del grado di purezza del raccolto e in base a ciò si provvede all’instradamento verso il riciclo della carta da un lato, o verso la discarica o l’incenerimento dall’altro.
Ecco, siccome paesi come il nostro sono abbastanza avanti nella raccolta differenziata, anche rispetto a ‘super potenze economiche’ come Regno Unito e Stati Uniti, molta dell’immondizia raccolta viene correttamente differenziata e portata in impianti dove gli scarti vengono riconvertiti (troppo spesso impianti che non si trovano sul territorio nazionale) e reimmessi sul mercato come materie prime-seconde. Il resto purtroppo viene bruciato o nascosto sotto il tappeto (un modo più che preciso di definire la pratica del conferimento in discarica) e ancora oggi la quantità di rifiuti che conferiamo in discarica o che bruciamo non è sostenibile.
Bene se questi rifiuti da qualche parte devono finire, e le nostre discariche e i nostri inceneritori non riescono a soddisfare la domanda, come risolviamo il problema?
Semplicisticamente possiamo dire che la spazzatura differenziata con un buon grado di purezza, se non potevamo trattarla noi, la vendevamo a condizioni di mercato, quella differenziata ma con un basso grado di purezza veniva ritirata ma spesso senza che ci venisse pagato niente, per l’indifferenziata invece a pagare siamo noi.
Fino a qualche tempo fa la Cina comprava la spazzatura di tutto il mondo, inclusa l’Italia, accettando per i suoi impianti di recupero anche raccolti con bassi livelli di purezza, pagando per fare un esempio, tra i 65 e 70 euro per tonnellata di carta, oggi invece per prendersi la carta dei ‘paesi civilizzati’ nelle ipotesi migliori non paga, in quelle peggiori è la Cina stessa a richiedere un pagamento per il servizio offerto. Se in un impianto che si limita alla raccolta delle materie di scarto il 50% del raccolto era destinato a finire negli impianti di trattamento dei paesi emergenti come Taiwan, il Vietnam, l’Indonesia, il 90% era comunque destinato alla Cina, questo vuol dire che il 45% delle materie raccolte ora non sappiamo dove metterle. E non è che nel frattempo le persone -ma soprattutto il comparto industriale- hanno smesso di produrre rifiuti, semplicemente i grossi cubi di spazzatura pressata e impacchettata, da gennaio 2018 hanno iniziato ad accumularsi in ogni angolo del globo
Come faranno i nostri eroi a superare questo impasse potenzialmente catastrofico sul piano economico, sociale e sanitario? Si può davvero sparare la spazzatura verso il cole con una grossa fionda? E l’idea di caricarla su un razzo e puntare verso lo spazio profondo?
Lo scopriremo nella prossima puntata!
(No seriamente, per oggi può bastare, tornate a sintonizzarvi sul blog di Verde Chiaro per ulteriori info!)